Nel 2016 si è registrato un boom degli analytics in Italia
I risultati della ricerca dell'Osservatorio Big Data Analytics & Business Intelligence della School Management del Politecnico di Milano presentati durante il convegno “Big Data: guidare il cambiamento, liberare valore”
Il mercato degli analytics nel 2016 in Italia è cresciuto del 15%, raggiungendo un valore complessivo di 905 milioni di euro. Se la business intelligence fa ancora la parte del leone in termini di volumi con un valore di 722 milioni di euro (+9% in un anno), i big data, seppur ancora marginali come valore (183 milioni di euro), sono la componente che mostrano la crescita più significativa (+44%). Gran parte di questo mercato è oggi appannaggio delle grandi imprese, che si dividono l’87% della spesa complessiva, mentre le Pmi si fermano al 13%.
Cresce il mercato e cresce la consapevolezza delle aziende italiane delle opportunità dei big data: il 39% dei CIO italiani vede la business intelligence, i big data e gli analytics come priorità di investimento principale nel 2017 per l’innovazione digitale. Ma emerge anche la necessità di nuove competenze e modelli organizzativi, di approcci tecnologici differenti e di una prospettiva progettuale di lungo periodo per lavorare con queste fonti informative: un’impresa su tre ha già inserito nel proprio organico uno o più data scientist, la cui presenza nelle aziende più all’avanguardia è cresciuta del 57% nell’ultimo anno. Tuttavia, il processo di trasformazione delle tradizionali imprese italiane in “big data enterprise” è ancora lungo: soltanto l’8% ha raggiunto un buon livello di maturazione, mentre il 26% ha appena iniziato il percorso e il 66% si trova in una situazione intermedia.
Sono i risultati della ricerca dell’Osservatorio Big Data Analytics & Business Intelligence della School Management del Politecnico di Milano presentata al convegno “Big Data: guidare il cambiamento, liberare valore”. La ricerca ha coinvolto attraverso una survey oltre 950 CIO e analizzato oltre 300 player dell’offerta tramite interviste dirette o fonti secondarie.
“La crescita del mercato analytics, che vale oggi 905 milioni di euro, conferma come la capacità di diventare una ‘data driven company’ non sia più un’opzione per le imprese, ma una necessità per rispondere ai repentini cambiamenti del mercato – commenta Carlo Vercellis, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Big Data Analytics e Business Intelligence. – Governare i big data è ormai una priorità non solo per ottimizzare i processi, ma anche per sviluppare nuovi prodotti e servizi, per cogliere le opportunità derivanti dalla monetizzazione dei dati. In questo senso, dotarsi di nuove competenze di data science e di strutture organizzative innovative rappresenta una sfida non più prorogabile”.
Le grandi imprese
Nelle grandi imprese (organizzazioni con più di 249 addetti) la diffusione di descriptive analytics è ormai un dato di fatto, presente nell’89% delle organizzazioni coinvolte, dove nell’80% dei casi l’utilizzo è ormai a regime almeno su alcuni ambiti applicativi. I predictive analytics risultano attualmente l’arena di maggior interesse, con una diffusione ampia, sebbene ancora confinata ad alcuni ambiti applicativi (30%) o in fase di pilota (29%). Ancora molto indietro i prescriptive e automated analytics, presenti rispettivamente nel 23% e nel 10% delle organizzazioni, perlopiù a livello di pilota.
Sebbene l’adozione di sistemi di analytics sia una pratica ormai consolidata, soltanto l’8% delle grandi imprese si trova a buon punto nel processo di trasformazione da aziende tradizionali a “big data enterprise”. Il 26% si trova allo stadio iniziale del processo, mentre il restante 66% si colloca in una posizione intermedia, con una governance già in fase avanzata per alcuni aspetti e ancora da avviare per altri.
Il settore più interessato nel mercato degli analytics tra le grandi imprese è quello bancario (29%), seguito da manifatturiero (22%), telecomunicazioni e media (14%), pubblica amministrazione e sanità (8%), altri servizi (8%), GDO (7%), utility (6%) e assicurazioni (6%). Una classifica che si rovescia parzialmente se si prende in considerazione la crescita dei singoli settori, trainata da assicurazioni (+25%) e poi manifatturiero, banche e utility, con tassi di espansione compresi fra il 15% e il 25%, mentre servizi, telco e media, mostrano una crescita compresa fra il 10% e il 15%, e Pa e sanità, con tassi di crescita più modesti.
Le PMI
Il ruolo delle piccole e medie imprese è ancora marginale nel mercato degli analytics in Italia. Lo rivela l’indagine dell’Osservatorio su oltre 800 imprese tra 10 e 249 addetti, da cui emerge com le le PMI, che pesano soltanto per il 13% del mercato degli analytics, solo in un caso su tre hanno dedicato parte del budget ICT 2016 a queste soluzioni (34%). La propensione di spesa aumenta al crescere delle dimensioni, con le medie imprese che investono di più delle piccole (39% contro 33%).
Emerge un sostanziale livellamento fra nord e sud del paese in termini di investimenti: il nord est si conferma motore dell’Italia col 39% di organizzazioni che adottano sistemi di analytics, ma centro (35%) e sud (31%) seguono a breve distanza con una propensione di spesa superiore al nord ovest (30%), un’area tradizionalmente più all’avanguardia nei settori tecnologici.
Per quanto riguarda i modelli di analisi dei dati, il 26% delle PMI adotta modelli di descriptive analytics. L’utilizzo di modelli di predictive è ancora limitato a poche organizzazioni (16%), mentre prescriptive e automated analytics sono ancora scarsamente conosciuti.
Analizzando la presenza delle Pmi settore per settore, emerge un quadro simile a quello delle grandi imprese: circa una su due appartiene a banche e assicurazioni (55%) e GDO (47%), ma seguono più distaccati pubblica amministrazione e sanità (39%), manifatturiero (34%), telecomunicazioni e media (28%), utilities (24%) e, per ultimo, i servizi (23%).
La valorizzazione dei dati
Il 32% delle imprese italiane dichiara di acquistare dati da integrare con quelli raccolti direttamente per la data monetization, la generazione di nuovi ricavi attraverso la vendita o lo scambio dei dati. Le imprese italiane acquistano soprattutto dati relativi all’andamento del mercato di riferimento del proprio business o al comportamento dei consumatori, nell’89% dei casi rifornendosi da veri e propri data provider, mentre nel 26% da altre organizzazioni del proprio settore e nel 29% da imprese appartenenti ad altre industry che hanno deciso di sfruttare i dati a loro disposizione per aprire una nuova linea di profitto secondaria rispetto alle loro attività principali, trasformandosi quindi a loro volta in data provider.
La possibilità di vendere dati è ancora poco diffusa tra le organizzazioni italiane, che al momento non sembrano riuscire a sfruttare appieno questa opportunità: solo il 7% del campione intervistato dichiara di vendere i propri dati. Vi è però un 26% delle imprese che afferma di essere in fase valutativa, mostrando quindi la volontà di comprendere come sia possibile realizzare questa nuova attività di business.
Il maggiore ostacolo alla data monetization, in particolar modo quella di tipo diretto, è l’autorizzazione del trattamento per le finalità dichiarate, la cui definizione è un momento cruciale, in cui è necessario avere chiaro lo scopo dell’analisi e la dichiarato della finalità di vendita dei dati raccolti.
Il data scientist
Nel 2016, tre grandi aziende italiane su dieci dichiarano di contare nel proprio organico figure di data scientist, una quota stabile rispetto allo scorso anno. Ma aumenta la consapevolezza di questo ruolo che oggi nel 7% dei casi viene codificato formalmente (contro il 4% nel 2015). Inoltre, tra le aziende che hanno già inserito figure di questo tipo, crescono del 57% i full time equivalent allocati, a conferma di una progressiva maturazione organizzativa.
L’Osservatorio ha realizzato un sondaggio internazionale 280 professionisti della data science, da cui emerge che questo professionista è una figura relativamente giovane con età media attorno ai 35 anni. In America è un po’ più alta, attorno ai 40 anni, poiché a quelle latitudini il settore ha iniziato a svilupparsi prima; in Asia, dove lo sviluppo è un più recente, l’età media sale a 29 anni; l’Europa segue il trend medio. In base alla collocazione geografica varia molto la retribuzione: nei paesi in cui queste competenze sono diffuse da più tempo come gli Stati Uniti lo stipendio supera spesso i 100mila dollari, mentre in Europa le retribuzioni sono più basse. I data scientist internazionali lavorano in aziende e settori molto diversi fra loro: i l 26% in information & communication technology, il 16% in banche e assicurazioni, il 14% nella PA e sanità, il 20% nei servizi, il 6% in consulenza e il restante si suddivide tra GDO, manifatturiero, telco e media, advertising e utility.
La collocazione organizzativa del data scientist è molto varia e riflette il diverso grado di investimento in queste competenze delle imprese. Il 27% dei data scientist lavora nel settore IT, il 26% in un’unità funzionale tradizionale (marketing, operations, finance o R&D) e ben il 26% in una funzione indipendente, specifica per le attività dei big data, creata come evoluzione del modello organizzativo dell’impresa. Un ulteriore 15% è consulente esterno, a testimonianza della complessità di internalizzare le competenze necessarie e comprendere il corretto mix di specializzazione.
Le startup
Le startup del mercato big data e business intelligence finanziate da investitori istituzionali dal 2012 ad oggi hanno raccolto complessivamente 3,18 miliardi di dollari nel mondo. Lo rivela la ricerca dell’Osservatorio su 229 startup censite nel settore, che rivela una crescente competizione e specializzazione, che ha portato allo sviluppo di nuove soluzioni e applicazioni, accanto alle soluzioni di abilitazione tecnologica.
Le startup dei big data e business intelligence operano in tre settori principali. Nel 16% dei casi fanno parte delle enabling technologies, infrastrutture che processano, memorizzano e analizzano i dati. Nel 36% operano negli analytics systems, sistemi non riconducibili univocamente a un ambito di utilizzo, ma con un’applicazione differente a seconda delle necessità del cliente. Nel 48% si occupano di applications, soluzioni verticali di analisi rivolte a particolari ambiti applicativi.
Sono 31 le startup dei big data e business intelligence operanti in Italia. Il nord è l’area con la maggior concentrazione (56%), seguita dal centro (37%) e sud e isole (7%). Tra le regioni, il maggior numero si trova in Lombardia con il 33% delle startup, seguita dal Lazio con il 16% e Emilia Romagna con il 13%.
Big Data Innovation Award
In occasione del convegno l’Osservatorio ha assegnato i Big Data Innovation Award ad Assicurazioni Generali e RCS Media Group, le due aziende che si sono distinte per soluzioni di big data analytics a supporto i propri processi. Il contest ha l’obiettivo di sostenere la cultura dell’innovazione in ambito big data attraverso un meccanismo virtuoso di condivisione delle esperienze.
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