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AO

GENNAIO-FEBBRAIO 2018

AUTOMAZIONE OGGI 403

124

AVVOCATO

a disciplina dei patti di non concorrenza

è regolamentata dal codice civile che

all’art. 2125 c.c. definisce il patto di non

concorrenza come quello con il quale

viene limitato lo svolgimento dell’attività

del lavoratore per il tempo successivo alla

cessazione del rapporto di lavoro, subordi-

nandone la validità alla sussistenza di tre

requisiti fondamentali: la forma scritta, la

pattuizione di un corrispettivo a favore del

prestatore di lavoro per le limitazioni pat-

tuite e per gli obblighi assunti e la prede-

terminazione ex ante di limiti di oggetto,

tempo e luogo delle limitazioni di cui con-

sta il patto. La giurisprudenza ha progres-

sivamente affermato nel corso del tempo

l’illegittimità e la nullità delle clausole con

le quali il datore di lavoro si riserva il diritto

di recedere dal patto di non concorrenza

in qualsiasi momento durante il rapporto

di lavoro o a seguito della cessazione dello

stesso. Se in passato, infatti, era prassi con-

divisa anche dalla giurisprudenza, inserire

nei patti di non concorrenza un patto di

opzione o una clausola di recesso al fine

di riservare al datore di lavoro la facoltà di

recedere dal patto o di decidere se avva-

lersene o meno in qualsiasi momento del

rapporto contrattuale (Cass. 24marzo 1980

L

Il diritto del datore di

lavoro di recedere dal

patto di non concorrenza

n. 1968 e Cass. 10 aprile 1978 n. 1686), successivamente, si è sviluppato un orientamento

giurisprudenziale diametralmente opposto.

Tale orientamento, prende inizio dalla la sentenza del 25 luglio 2000 con la quale il Tribu-

nale di Milano ha affermato il principio secondo cui “È nulla, in quanto in frode alla legge,

la previsione, contenuta nel patto di non concorrenza, con la quale il datore di lavoro

si riservi il potere discrezionale di decidere, anche successivamente alla cessazione del

rapporto di lavoro se applicare il patto stesso”. Questo principio ha poi trovato conferma

nella successiva sentenza della Suprema Corte di Cassazione del 13 giugno 2003 n. 9491

che ha stabilito che “La previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa

all’arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme impe-

rative. Infatti la limitazione allo svolgimento dell’attività lavorativa deve essere contenuta

- in base a quanto previsto dall’art. 2125 c.c., interpretato alla luce degli artt. 4 e 35 Cost. -

entro limiti determinati di oggetto, tempo e luogo e compensata da un corrispettivo di

natura altamente retributiva, con la conseguenza che è impossibile attribuire al datore

di lavoro il potere unilaterale di incidere sulla durata temporale del vincolo o di cadu-

care l’attribuzione patrimoniale pattuita”. Con la recente sentenza dell’8.01.2013 n. 212

la Cassazione è tornata a ribadire definitivamente la nullità della clausola contrattuale in

questione, e, nello specifico a confermare definitivamente quanto espresso nel prece-

dente orientamento del 2003. In base alla giurisprudenza oramai consolidata, dunque,

emerge come, la facoltà di recesso del datore di lavoro dai patti di non concorrenza sot-

toscritti in sede contrattuale, sebbene legittima sulla base dei principi generali dell’agire

contrattuale, configgerebbe con la disciplina specifica del patto di non concorrenza, la cui

ratio consiste proprio nella limitazione dell’autonomia contrattuale attraverso la prede-

terminazione ex ante del contenuto del patto. Una clausola volta a consentire l’esercizio

di un tale potere da parte del datore di lavoro, se inserita nel contratto, sarebbe pertanto

contra legem perché in palese contrasto con l’ultimo comma dell’art 2125 che limita la

durata massima del patto e impone la delimitazione ‘ex ante’ dello stesso, che non può

essere soggetto a una pattuizione che ne consenta il venir meno in ogni momento della

sua durata a discrezione del datore di lavoro. Tale orientamento, dunque, si afferma come

l’ultimo, maggiormente condiviso, e supera definitivamente il primo che lasciava il più

ampio margine all’autonomia contrattuale delle parti. La ratio sottesa sembra essere

quella di garantire una maggiore tutela al lavoratore per tutelarlo dalla situazione di in-

certezza in cui potrebbe trovarsi se non fosse in grado di prevedere la durata e il conte-

nuto del patto, per garantirgli fin dall’inizio del rapporto di lavoro la certezza della durata

e del contenuto dei vincoli a cui è sottoposto e per consentirgli, di conseguenza, di fare

scelte dal punto di vista lavorativo nella più totale libertà e consapevolezza, libertà che

viceversa non verrebbe garantita se fosse costantemente soggetto alle determinazioni

arbitrarie del datore di lavoro di decidere in qualsiasi momento di recedere dal patto.

ALP – Assistenza Legale Premium

Cominotto @cri625

Cristiano Cominotto, Silvia Colamaria