Robot e Industria 4.0: cosa succederà nel mercato del lavoro?

Pubblicato il 22 maggio 2017

Industria 4.0, Internet of Things, intelligenza artificiale e chi più ne ha più ne metta: insomma, i robot sono fra noi. E se per adesso la loro presenza, nel caso delle PMI, può forse passare inosservata, tutt’altro sta succedendo in quelle grandi industrie che stanno già sperimentando i più avveniristici strumenti del digital manufacturing.

Ma come sarà il mercato del lavoro nei prossimi dieci anni? Come cambierà il mondo della ricerca e della selezione del personale in una società in cui sempre più lavori di routine saranno affidati a delle macchine più o meno senzienti?
Amazon non si è di certo affidata a un cacciatore di teste per assumere quei 10.000 robot che dal 2014 smistano le merci nei suoi enormi magazzini.
Quale sarà il destino dei lavoratori se le fabbriche, gli uffici e i magazzini si riempiranno di macchinari autonomi dotati di un’intelligenza artificiale appositamente sviluppata per eseguire alla perfezione un determinato lavoro?
Come ricorda Carola Adami, fondatrice e CEO di Adami & Associati, società specializzata nella ricerca e selezione di personale per PMI e multinazionali: “Il timore di ritrovarsi disoccupati a causa del progresso tecnologico è una paura antica: di fatto questa preoccupazione è nata con il concetto stesso di industria moderna”.

Basti pensare infatti che già nel 1940 il presidente americano Franklin Delano Roosevelt non esitò nell’affermare che, a un decennio di distanza dalla Grande Depressione, gli USA continuavano “a creare posti di lavoro più lentamente di quanti l’innovazione tecnologica ne eliminasse”. Le paure di Roosevelt e di molti cittadini americani, come però sappiamo, si rivelarono del tutto infondate. Sarà forse così anche con l’automazione e l’industria 4.0?

Non sono certo pochi gli studi che fanno temere il peggio per il mercato del lavoro: Frey e Osborne, due ricercatori dell’Università di Oxford, hanno infatti stimato che entro il 2040 il 47% dei lavori negli USA sarà svolto da robot. Sono invece molto più cauti Arntz, Gregory e Zierahn, che per conto dell’Ocse hanno calcolato che solamente il 9% delle occupazioni dei 21 Paesi più industrializzati del mondo sarebbero effettivamente a rischio per via della automazione. Questa seconda stima è di fatto confermata da uno studio degli analisti di McKinsey, secondo il quale solamente il 5% delle occupazioni odierne può essere effettivamente e completamente automatizzato. Con il progresso tecnologico dei prossimi anni però, come prosegue l’indagine di McKinsey, la percentuale potrebbe salire fino al 49%.

I dati provenienti dagli studi più allarmanti vanno ovviamente a influenzare la visione di molti cittadini, anche in Italia. Stando infatti al rapporto AGI-Censis “Uomini, robot e tasse: il dilemma digitale”, il 37,8% degli italiani è fermamente convinto che la robotizzazione dei processi produttivi non potrà che portare a una riduzione dei posti di lavoro. Il 33,5% degli intervistati sostiene al contrario che i posti di lavoro aumenteranno, mentre il 28,5% del campione pensa che l’automazione non porterà nessun cambiamento sull’ammontare delle opportunità lavorative. “In realtà” sostiene Adami “la progressiva automazione ci mette di fronte, piuttosto che a uno vero stravolgimento del mercato del lavoro, a un necessario cambiamento culturale. In questo senso, le aziende devono investire in un processo di continuo aggiornamento delle competenze dei propri dipendenti”.
La tanto temuta quarta rivoluzione industriale potrebbe dunque essere una opportunità di espansione per il mondo del lavoro “se le aziende saranno in grado di sfruttare razionalmente le nuove tecnologie” ha commentato Adami. “Il risultato più incisivo sarà un benefico miglioramento delle competenze dei lavoratori in fatto di digitalizzazione e di agilità”. A tutto questo va ovviamente aggiunto l’ovvio aumento di ricerca personale in ambito IT, professionisti con le competenze idonee per supportare i business nell’avvio di una produzione in ottica Industry 4.0.

“Come ormai sanno molti direttori HR, in Italia a oggi la ricerca di talenti professionali in grado di avviare un reale processo di cambiamento interno è in molti casi frustrante, in quanto meno del 10% della popolazione possiede delle valide competenze ICT”. Il problema, prosegue Adami, è che “più della metà del mercato del lavoro ha attualmente bisogno di queste figure in grado di supportare il processo di innovazione digitale interno: da qui il ruolo fondamentale delle società di recruiting nella ricerca dei migliori talenti”.



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