La Pandemia e il conseguente lockdown hanno provocato l’interruzione delle catene di fornitura globali e indotto tutti i policymaker verso i concetti di reshoring e resilienza. Il nuovo rapporto di Euler Hermes esamina come la pandemia sta spingendo i produttori a ripensare le proprie strategie in materia di supply chain.
Per il 94% delle aziende, la pandemia ha provocato l’interruzione delle catene di fornitura. Euler Hermes ha intervistato un campione di dirigenti di alto livello di 1.181 aziende appartenenti a cinque Paesi (Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania e Italia) e sei settori (IT, tecnologia e telecomunicazioni, macchinari e attrezzature, prodotti chimici, energia e utility, automotive e agroalimentare) sulle loro esperienze rispetto all’interruzione delle supply chain e sui piani per renderle più resilienti. L’indagine è stata condotta da metà ottobre all’inizio di novembre. Un’azienda su cinque ha parlato di una “grave interruzione”.
I settori più colpiti di questo campione sono stati macchinari e attrezzature, informatica, tecnologia e telecomunicazioni, energia e utility. La crisi ha indotto la maggior parte delle aziende (52%) a proteggersi dal rischio attraverso una copertura assicurativa, l’accumulo di scorte e la ricerca di soluzioni di approvvigionamento alternative, da attivare quando necessario.
Le aziende si sono inoltre impegnate attivamente per svolgere un maggiore monitoraggio e ottenere una migliore comprensione delle catene di fornitura. Segue la riorganizzazione della supply chain, con 4 aziende su 10 che segnalano di aver già cambiato alcuni fornitori esteri e rilocalizzato parte della produzione. Le aziende americane applicano la due diligence ESG in modo notevolmente maggiore rispetto a tutte le altre aziende degli altri paesi.
Le aziende italiane sembrano essere le più preoccupate per l’aumento dei costi di produzione, con il 40% degli intervistati; questo risultato potrebbe essere legato alla percezione di un andamento dei salari che cresce più velocemente della produttività, danneggiando la competitività. Solo il 3-6% delle imprese italiane sta valutando la possibilità di un reshoring, dato inferiore rispetto alla media del campione di un significativo 10-15%. Questo potrebbe essere correlato alla percezione, da parte delle aziende, di debolezze strutturali nei settori delle infrastrutture e dell’istruzione in Italia, nella fragilità del sistema bancario e nella relativamente elevate imposte sulle società.
Le aziende altamente digitalizzate (che svolgono da 6 a 8 diverse attività digitali1) hanno adottato un numero notevolmente più alto di misure per mitigare le interruzioni delle catene di fornitura rispetto a quelle meno digitalizzate (che hanno da 0 a 2 attività digitali). Ad esempio, il 57% delle aziende altamente digitalizzate ha fatto ricorso a strategie di hedging contro il 43% di quelle meno digitalizzate; il 47% delle prime ha migliorato la propria comprensione delle catene di fornitura rispetto al 33% delle seconde e il 39% ha rafforzato la due diligence ESG sui fornitori rispetto al 14% delle aziende meno digitalizzate.
Malgrado non ci sia un sostegno massiccio al reshoring, molte aziende cercano di trovare nuovi fornitori in patria o di impiantare la produzione vicino ai propri siti. Il 55% degli intervistati sta valutando la possibilità di cercare nuovi fornitori nei prossimi 6-12 mesi, mentre il 62% pensa a questa soluzione a lungo termine. Tuttavia, un terzo delle aziende valuta la possibilità di spostare le forniture in Paesi che già costituiscono le prime 3 sedi di approvvigionamento.
Alcune imprese preferirebbero cercare nuovi fornitori in patria e, in questo senso, gli Stati Uniti sono economicamente i più “patriottici”.
Tuttavia questo non vuol dire girare le spalle al fornitore cinese ma potrebbe legarsi al tentativo di contenere i costi in tempi di grande incertezza e dopo uno shock senza precedenti. Infatti, il “miglioramento dei margini” è citato come il motivo più comune per cercare nuovi fornitori.
Circa la metà delle aziende intervistate pensa di spostare gli attuali siti di produzione a medio e lungo termine, ma solo il 10-15% prende in considerazione il trasferimento della produzione nel proprio paese d’origine, cioè il reshoring.
Secondo le stime di Euler Hermes, circa il 30% sta valutando il nearshoring, cioè il trasferimento della produzione in un Paese vicino (soprattutto se fa parte della stessa unione doganale o accordo di libero scambio).
Le aziende sono divise sulle ragioni di questa scelta, dalla ricerca di fornitori di migliore qualità, all’aumento del fatturato e dei margini, alla riduzione dei ritardi e una migliore gestione delle scorte. Un terzo delle aziende francesi manifesta la volontà di creare posti di lavoro in patria.
La crescente richiesta di protezione e un’articolata strategia di resilienza saranno gli agenti del cambiamento post-Pandemia Ma tali cambiamenti nelle catene di fornitura non sono semplici: costi di manodopera più alti legati alla qualità del fornitore e costi di investimento sono le sfide più citate del passaggio ai fornitori nazionali o del ritorno della produzione in patria. La maggior parte delle aziende dichiara di essere pronta a sostenere i costi più elevati del reshoring, ma il 40% li trasferirebbe ai clienti.