A cura di Marco Noseda, Chief Strategy Officer di Cariplo Factory
Lo scorso anno, in pieno lockdown, il Moma di New York ha allestito una serie di corsi gratuiti online di arte moderna e contemporanea; il Getty Museum di Los Angeles si è divertito a giocare con i propri visitatori virtuali stimolandoli a ricreare opere d’arte con oggetti di uso quotidiano per poi rilanciarle sui propri canali social. Il Guggenheim Bilbao ha creato un canale online ad hoc (#guggenheimbilbaolive) dove gli appassionati d’arte hanno potuto incontrare in diretta i curatori delle mostre ascoltando la nascita delle esibizioni in diretta streaming. A livello internazionali gli esempi di “esperimenti riusciti” da parte del mondo della cultura per continuare a coinvolgere il pubblico e garantire un’offerta di qualità anche a distanza sono molteplici e abbracciano l’intero globo. A Seul, la produzione del Fantasma dell’Opera non si è praticamente mai fermata: i cantanti si sono esibiti online senza sosta da remoto, prima di tornare sul palcoscenico.
Il pubblico, dal canto suo, ha mostrato grande interesse per queste iniziative. La pandemia ha fatto emergere quanto sia imprescindibile la fame di cultura e quanto stiano cambiando i modelli di fruizione: la voglia di passeggiare lungo la galleria di un museo non scomparirà mai, così come l’emozione vibrante di ascoltare un’aria lirica seduti in poltrona a teatro. Ma è emerso quanto mai prima che per rendere più accessibile l’offerta culturale – una missione difficile che da anni si pongono tutte le istituzioni, per fronteggiare un calo di visite progressivo e diffuso – serve uno sforzo d’innovazione tecnologica.
Qualcosa anche in Italia inizia a muoversi: negli ultimi anni diverse realtà museali, da nord a sud, hanno iniziato a sperimentare le potenzialità delle nuove tecnologie come strumento per aprire nuovi scenari di fruizione dell’offerta culturale. Fino ad oggi, tuttavia, il grosso dello sforzo si è concentrato sull’arricchire l’esperienza dei visitatori, ma il Covid ha mostrato quanto sia invece importante esplorare nuove strade legate all’accessibilità. Ancora di più se oltre il 50% del patrimonio culturale mondiale è custodito proprio dall’Italia.
Uno studio del Politecnico di Milano, realizzato a maggio del 2020 su 100 luoghi della cultura statali, osserva che durante l’emergenza le attività di musei e parchi archeologici si sono riversate sui social e questo ha contribuito a raddoppiarne la visibilità online e – di conseguenza – la reputazione digitale, rispetto al periodo pre-Covid. Anche i dati del Ministero Mibact, che due anni fa ha attivato un servizio di analisi periodiche che misurano l’indice di gradimento del pubblico nei confronti dei contenuti culturali online dei musei, confermano il “boom” verificatosi durante il lockdown dello scorso anno. Ad esempio, sono aumentati sensibilmente i follower delle pagine social dei musei: Instagram è il mezzo più seguito con 26.683 follower medi per account, ed è anche quello che a fine maggio ha avuto un incremento percentuale maggiore (+7,2%). Su Facebook la crescita media, tra febbraio e marzo, è stata del 5,1%. Tuttavia, la strada da percorrere è ancora lunga: infatti con il progressivo ritorno alla normale quotidianità, anche le interazioni online sono tornate a calare, seppure mantenendosi a un livello superiore a quello precedente il lockdown.
Questo perché se da un lato i social network sono uno strumento utile, dall’altro non bastano (per fortuna) per creare una nuova dimensione di fruizione della cultura. A mancare, in tutto il settore, sono gli investimenti in innovazione. E adesso il tempo stringe perché il Covid ha stravolto il nostro modo di vivere. Soprattutto in tutti quei contesti culturali che generano forme di aggregazione: dai musei alle gallerie; dai teatri ai cinema. È fondamentale, quindi, ripensare alle modalità di fruizione di queste esperienze: servono delle alternative che riducano la presenza del pubblico, ne aumentino il turnover e rendano possibili le attività a distanza.
Chiedere a un’istituzione museale di affrontare da sola la complessità di un ripensamento di questa portata della propria offerta non è realistico né auspicabile, se non per rare eccezioni. L’esperienza dimostra che ogni realtà “tradizionale” per innovarsi ha bisogno di entrare in contatto con chi invece “nasce” già innovativo. Mai come oggi (per fare un esempio), i musei devono entrare in contatto con startup che utilizzano la realtà aumentata, per sviluppare esperienze tecnologiche immersive, con integrazione di attività di gamification… e così via. Ovviamente trovare il partner giusto è difficile, specialmente quando a dialogare sono realtà che parlano linguaggi così diversi.
Noi abbiamo provato a facilitare questo incontro con il progetto InnovaMusei (avviato da Fondazione Cariplo con Regione Lombardia, Unione Camere e con il supporto di Cariplo Factory) che ha l’obiettivo di incentivare i rapporti tra istituzioni museali e imprese culturali creative che si occupano di innovazione culturale. Lo scopo è duplice: da un lato preservare l’intero comparto dei musei per permettere loro di mantenere viva l’attività; dall’altro attirare la domanda e l’interesse del pubblico in un momento in cui proprio la richiesta di fruizione culturale sta cambiando radicalmente.
Un percorso che passa da una profonda riflessione sull’efficacia dei modelli sperimentati negli ultimi anni e dall’individuazione di nuovi paradigmi di consumo culturale. Un percorso che, nel nostro caso, si avvale dell’esperienza in tema di open innovation sviluppata e consolidata negli anni con diverse grandi aziende: uno strumento che ha dimostrato di funzionare con successo è che ora può essere applicato anche alle imprese culturali. D’altra parte, non è immaginabile che qualcuno sia in grado di affrontare da solo la complessità dei temi che porta un cambiamento del genere. Serve una contaminazione tra chi conosce il mondo della cultura e chi possiede l’agilità e le competenze tecnologiche. Serve però anche un abilitatore del cambiamento che aiuti questi due mondi a dialogare – due mondi che non sono poi così distanti perché, seppur con modalità diverse, hanno nel loro DNA l’attitudine a interrogarsi, esplorare e guardare al futuro.