Come ogni anno, quando si avvicina il momento di entrare in classe e comunicare a nuovi studenti l’entusiasmo per le meraviglie della teoria dei sistemi e del controllo, insieme al desiderio di aprire entusiasmanti orizzonti e inattese prospettive a giovani menti desiderose di conoscenza, riemerge il terrore di girare le spalle alla lavagna e incontrare sguardi alienati di studenti nella cui percezione le suddette ‘meraviglie’ si collocano in un paesaggio emotivo i cui punti cardinali sono la vuota inutilità, la macabra crudeltà, l’orrido terrore e la noia infinita. Sotto adeguato interrogatorio, solitamente tali sofferenze sono associate al fatto che “è tutta teoria, niente pratica”, con la sottintesa precomprensione che “tutto questo è vero in teoria, ma non in pratica”. Se la prima declinazione, nel suo brutale estremismo, si smonta con pochi esempi che mostrano come “non c’è nulla di più pratico di una buona teoria” (Kurt Lewin), alla seconda declinazione vanno riconosciuti dei meriti. Vero è che l’uso truffaldino di tale massima ha avuto sostenitori nobili, come il filosofo Schopenhauer, che la propone come trentatreesimo stratagemma nell’’Arte dell’ottenere ragione’ (puntualizzandone l’evidente inconsistenza logica); e tuttavia tale massima è spesso la sincera verbalizzazione dell’esperienza professionale di molti di noi, che si sono scontrati con il ‘theory vs practice gap’. Su questo tema ho letto recentemente ‘Industry engagement with control research: Perspective and messages’ (Annual Reviews in Control, 2020), che già dal titolo evidenzia come più che lamentarsi della distanza fra teoria e pratica, è utile costruire ponti fra il mondo industriale e il mondo accademico, riconoscendo allo stesso tempo la distinzione fra i due, ma anche i vantaggi derivanti dalla reciproca fertilizzazione. L’articolo è in open access (quindi liberamente fruibile) e troppo interessante per darne uno spoiler, e quindi, consigliandone la lettura integrale, mi limito a prenderne in prestito un paio di osservazioni. La prima: citazioni e riferimenti bibliografici alla mano, l’articolo mostra come la tentazione di fare ‘pratica senza teoria’ veniva proposta, nero su bianco, già un secolo fa, esattamente con le stesse motivazioni di oggi (ormai il progresso è così veloce rispetto al decennio passato, che non possiamo permetterci di fermarci ad approfondire le basi). La seconda: la multidisciplinarietà dell’automazione, fondata sulla capacità di astrarre, esprime al meglio il suo potenziale solo quando si concretizza nelle applicazioni. Ovvero: theory vs. practice gap non è lo spauracchio da evitare del nostro fallimento (da un lato la teoria sterile e fine a sé stessa, dall’altro una pratica cieca che procede a tentoni), ma lo spazio da cercare della nostra creatività e della scoperta, sempre al confine con l’ignoto. Per questo, sfogliare un numero di Automazione Oggi mi lascia sempre sorpreso e affascinato per la ricchezza e l’eterogeneità di applicazioni nelle quali si coniugano in modo sorprendente gli strumenti metodologici astratti e la conoscenza specializzata di specifici settori applicativi. Oggi da professore, come trent’anni fa da studente, per me accogliere il fascino dell’automazione significa abbracciare la vastità di scenari mozzafiato: gli algidi picchi dell’astrazione della teoria dei sistemi e del controllo; le verdeggianti colline della robotica e delle architetture di controllo; i caldi (spesso roventi) lidi delle applicazioni più innovative. E quindi il mio augurio di sempre, agli studenti, ai lettori, a me stesso, è che nella nostra vita professionale possiamo sperimentare la gioiosa sorpresa di uno che di teoria e pratica se ne intendeva, e che sosteneva di essere stato solo “come un fanciullo sulla spiaggia che si diverte nel trovare qua e là una pietra più liscia delle altre o una conchiglia più graziosa, mentre il grande oceano della verità giace del tutto inesplorato davanti a me” (I. Newton).