Di Elisabetta Dessi, Cyber Sales Specialist di Axitea
Quando si presentano a un cliente le armi e le strategie per difendersi da attacchi e si spiega come comportarsi in caso di incidente, si parla sempre di soluzioni, servizi e tecnologie.
Si dà spesso troppa poca importanza a quella che è attualmente la causa principale di incidenti di sicurezza: il fattore umano o, come viene chiamato in ambito cyber, il fattore H.
Gli attaccanti usano sempre più il social engineering per rendere i loro attacchi il più possibile efficaci e abbastanza ingannevoli da indurre le persone a cadere nel tranello di aprire file, cliccare su link o condividere informazioni con altri utenti, creando una catena di problemi per le aziende e gli utenti.
Secondo un recente studio del vendor di security Proofpoint, oltre il 99% delle minacce richiede un’interazione umana per agire – l’abilitazione di una macro, l’apertura di un file, di un link o di un documento – a indicare l’importanza del social engineering per consentire il successo di un attacco.
Da un lato la ricerca di vulnerabilità tecnologiche è diventata sempre più complessa e costosa anche per i cybercriminali, mentre un utilizzo sempre più spinto dei social media, non sempre ottimale dal punto di vista della sicurezza, mette a disposizione di tutti informazioni anche personali che possono essere utilizzate per creare messaggi credibili che spingano i destinatari ad azioni imprudenti e non conformi alle policy aziendali.
Ricordate la truffa del falso CEO? È una frode informatica che è stata portata a termine avendo trovato il contatto giusto, scrivendo una mail plausibile e credibile tramite una falsa identità dirigenziale, per indurlo a effettuare un bonifico bancario urgente. Questa frode esiste da tempo, ha creato danni a moltissime persone e continua a mietere vittime: è forse l’esempio più famoso di quanto il fattore H sia importante.
Inviare e-mail fraudolente, rubare le credenziali e caricare allegati dannosi nelle applicazioni cloud è più facile e molto più redditizio che creare un exploit complesso e costoso, che ha anche un’alta probabilità di fallimento.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a una crescita tecnologica esponenziale, sia dal punto di vista delle opzioni e delle funzionalità che della sua effettiva diffusione, in ambienti domestici e lavorativi. Adesso si è però arrivati al punto in cui sono le persone a fare la differenza: se analizziamo la catena della sicurezza logica in un’azienda, il comportamento dei dipendenti è tra gli elementi più critici e va quindi “configurato” e “ottimizzato” come tutti gli altri elementi che la compongono.
Non viene richiesto ovviamente di diventare degli psicologi esperti, ma il Social Engineering deve rientrare tra i mezzi utilizzati per la difesa degli asset aziendali, innanzitutto aumentando la consapevolezza delle persone e poi formandole in base a quanto rilevato tramite un assessment attento e puntuale sia sulla parte tecnologica che su quella umana.
È fondamentale quindi rivolgersi ad aziende che propongano un approccio consulenziale e che sappiano offrire un’analisi approfondita per consigliare, non solo le migliori tecnologie, ma anche le migliori strategie da adottare per mettere al sicuro i propri asset e le persone che lavorano per e con la propria azienda.