Informare è importante per le aziende che si rivolgono direttamente al consumatore finale, ma non solo. Dopo la comunicazione della sospensione di eventi pubblici, occorre fare un passo in più e andare oltre, nella direzione del servizio, per tutelare tutti, soprattutto le persone più deboli. “È comunicazione di crisi (crisis communication)” come spiega l’agenzia di comunicazione Eo Ipso.
Le aziende sanitarie stanno comunicando, ovviamente, ma anche le aziende di servizi, che sono tante, dovrebbero comunicare al meglio quello che stanno facendo, per evitare disinformazione e fake news. Una corretta informazione accresce il livello di conoscenza, crea un clima di fiducia e permette alle aziende di dimostrare la propria credibilità, anche e soprattutto in situazione come questa, sia verso i clienti, sia verso gli stakeholder.
La gestione di una crisi è ‘fluida’ per definizione, quindi non imbrigliabile in schemi, esistono dei protocolli, ma non un vero “ABC” di comportamento, richiede la conoscenza dei meccanismi di gestione. “Comunicare è un servizio per l’intera comunità. Che cosa sono in grado di fare le aziende anche in aree di crisi?” continuano gli esperti di Eo Ipso. “Producono beni che possono essere utili in questo momento di emergenza? Chi si occupa di servizi, a partire dal telelavoro, lo smartworking, può avere molto da insegnare. C’è un know how da condividere? Le associazioni di categoria hanno il polso della situazione dei loro associati, cosa sta succedendo? Sarebbe utile comunicarlo in modo da raggiungere, attraverso i media, il maggior numero di persone possibile.
La comunicazione ha diversi livelli, dal locale al nazionale, e la trasparenza messa in atto crea fiducia in dipendenti, clienti e stakeholder. L’obiettivo è sempre quello di ridurre al minimo gli effetti negativi generati dalla crisi e preservare la reputazione aziendale. Inoltre, la rete di comunicazione può servire non solo a socializzare le proprie difficoltà, ma anche a condividere soluzioni e a dare materiale di riflessione per chi prende decisioni politiche.
I dipendenti sono sicuramente già stati avverti sulle politiche messe in atto all’interno dell’azienda. Può essere interessante farlo sapere anche all’esterno, per condividere le politiche attuate. In caso di infezioni è essenziale una rapida comunicazione interna su tutti i dipendenti, in modo da aiutare il lavoro dei medici ed evitare al più possibile i contagi, per tutelare soprattutto le persone deboli che sono le più a rischio.
Facciamo degli esempi:
• azienda che produce beni utili per sterilizzare o con tecnici o laboratori che stanno studiando una soluzione per la malattia. Fare il punto della situazione, oltre ad alzare la reputazione aziendale, cosa non secondaria, può dare speranza a tutti;
• nel terziario: chi si occupa di smart-working o ha informazioni da condividere.
• I social in questi giorni sono stati invasi da foto di supermercati vuoti, ma gli scaffali sono stati poi riempiti e non tutti i punti vendita sono stati presi d’assalto. Per il direttore del punto vendita può essere semplice sapere dove la situazione è migliore e comunicarlo, a partire dal web, per passare poi ai social e ai media. Una regola che vale per tutti, grandi e piccoli punti vendita. E anche per le farmacie, dove è sempre più difficile trovare disinfettanti in gel e mascherine.
Paure e disinformazione, online e sui social, possono creare il panico e soprattutto danneggiare la ‘reputation’ del nostro intero Paese con ripercussioni negative sull’economia e il business.
SEMrush ha analizzato le ricerche digitate online da dicembre 2019 a febbraio 2020. In media sono state quasi 9 milioni e mezzo le digitazioni mensili relative alla tematica Coronavirus. Stando agli ultimi dati (in continuo aggiornamento) diffusi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel mondo sono oltre 81.000 i casi di contagio confermati (dei quali 78.000 in Cina), più di 2.700 i decessi (dei quali la maggior parte in Cina). In Italia gli ultimi bollettini parlano di 12 vittime e oltre 370 casi tra cui quattro minori, fortunatamente nessuno in gravi condizioni.
Decine di migliaia di utenti ogni giorno affidano al web dubbi e paure. La rete, però, talvolta può rivelarsi cattiva consigliera, tra fake news e informazioni parziali o inesatte. Immancabili le teorie cospirazioniste, secondo le quali il rilascio del virus stato pianificato per controllare la popolazione, secondo altri, invece, si tratterebbe di un attacco con armi biologiche non ancora rivendicato. Notizie di ogni sorta, spesso assurde, che non citano la fonte, che vengono rilanciate sui social senza essere prima verificate, diventando virali.
“I social e la rete sono uno strumento formidabile, democratici nell’accesso e nell’utilizzo, ma hanno anche la colpa di contribuire a diffondere la disinformazione” spiega Fernando Angulo, capo della comunicazione di SEMrush, azienda che si occupa quotidianamente di analizzare la rete e la reputazione online. “In situazioni come questa più che mai, è indispensabile la verifica dell’attendibilità della fonte che dà la notizia, facendo riferimento solo alle comunicazioni ufficiali di organi competenti, come l’OMS o il Ministero della Salute”.
SEMrush ha analizzato le ricerche online fatte negli ultimi mesi, constatando che, nel periodo che va da dicembre 2019 a febbraio 2020, le ricerche per la parola chiave “coronavirus” sono state in media 9 milioni e mezzo circa ogni mese. Prendendo in esame il periodo che va da novembre 2019 a gennaio 2020 (ancora non si dispone di dati ufficiali relativi al mese di febbraio) la domanda che la gente digita più di frequente è relativa ai viaggi in Cina (in media 2.510 volte al mese), seguita da “cosa è il coronavirus” (1.200 ricerche mensili in media) e “come eliminare il coronavirus” (903 ricerche mensili in media). Numerose anche le ricerche correlate alle mascherine, che in moltissime città sono andate letteralmente a ruba.