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Automazione e Strumentazione Gennaio/Febbraio 2019 EDITORIALE primo piano 9 Process Automation Engineer è da sempre ritenuta una risorsa chiave nel successo dei progetti di automazione di processo ma è altresì una figura di difficile reperibilità sul mercato. L’impressione, chiedendo a colleghi che vengono dal mondo degli integratori di sistema, delle società di ingegneria e degli utilizzatori finali è che molto spesso l’aspettativa superi la realtà e non si trovi quel che si cerca semplicemente perché si cerca qualcosa che non c’è. Chiedere a un neolaureato di avere competenze dettagliate su un particolare processo e perfetta conoscenza dei principali sistemi di automazione presenti sul mercato è decisamente folle. Altra cosa sarebbe chiederlo ad un laureato con dieci anni di esperienza, ma anche in questo caso c’è una domanda di fondo a cui bisogna cercare di rispondere per capire meglio cosa rende introvabili al giorno d’oggi queste figure: qual è il mix tra percorso di formazione, esperienza sul campo e attitudini personali che negli anni può traghettare un neolaureato verso l’accreditamento a pieno titolo a Process Automation Engineer? Per mia esperienza l’università risponde in modo adeguato alla copertura delle competenze di base richieste, siano esse di processo o di automazione, ma in ogni caso per un neolaureato che voglia intraprendere una carriera da Process Automation Engineer c’è un gap da colmare in partenza. Qui identificherei il primo fattore importante: ci vuole da un lato un neolaureato disposto a continuare a formarsi e dall’altro una azienda disposta a investire in formazione. Il primo compito assegnatomi da neolaureato più di vent’anni fa quando entrai in una importante società di ingegneria fu quello di leggere per più di due mesi consecutivi alcuni tomi di tecnica farmaceutica per comprendere il processo per il quale negli anni a venire sarei andato a fare ingegneria di automazione: quante aziende oggi sono disposte a investire due mesi uomo ‘a perdere’ su un neolaureato appena assunto? E quanti neolaureati che escono dall’università sono oggi disposti a rimettersi subito a studiare sui libri prima di vedere un impianto vero? Ci sono, poi, una serie di competenze che l’università non può dare e che solo un iter di formazione e aggiornamento continuo durante il percorso lavorativo può colmare. La competenza sul funzionamento e sull’utilizzo dei vari sistemi di automazione presenti sul mercato, ad esempio, non può che essere frutto di un percorso di training ragionato e pianificato con l’azienda. Il secondo fattore è l’acquisizione di familiarità con i processi e i sistemi. Qui l’esperienza sul campo fa la differenza: il coinvolgimento nella stesura delle specifiche funzionali, la partecipazione a sessioni di revisione del software sviluppato dagli integratori, l’esecuzione dei collaudi e soprattutto il coinvolgimento diretto nel commissioning e nell’avviamento degli impianti sono una palestra dal valore inestimabile. È un processo che inizialmente richiede un affiancamento (vero, però!), e cioè richiede un’altra volta una forma di investimento da parte dell’azienda. Il terzo fattore, che per quanto mi riguarda pesa almeno tanto quanto i precedenti, è il fattore umano: ci sono una serie di attitudini della persona (le cosiddette soft skill) che ‘calzano’ perfettamente con il profilo del Process Automation Engineer: la curiosità di capire come funziona la realtà, la passione per tale conoscenza, l’attitudine a saper chiedere e soprattutto ascoltare, l’attenzione ai dettagli, la determinatezza a non fermarsi finché non si vedono funzionare le cose sono caratteristiche chiave della figura che ricerchiamo. Viene il dubbio che queste figure oggi non si trovino facilmente sul mercato perché sono rimasti in pochi a rischiare in un percorso di formazione e crescita personale così impegnativo. La figura del Perché non si trovano Process Automation Engineer? Italia Automazione Srl Enzo Birindelli

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