C’è ancora grande incertezza sulla trattativa tra Unione Europea e Regno Unito, ma a poco più di un mese dalla Brexit e dopo la sconfitta in parlamento della proposta della premier Theresa May, l’ipotesi di un’uscita senza accordo diventa sempre più concreta: in questo caso, l’impatto sulle numerose aziende italiane che esportano sul territorio britannico sarebbe repentino e costoso.
Le esportazioni italiane verso il Regno Unito hanno superato i 23 miliardi di euro nel 2017, in crescita del 3,4% rispetto all’anno precedente: nessun accordo significherebbe per queste aziende un brusco cambiamento su diversi fronti, senza alcun periodo di transizione (* studio elaborato dalla società di servizi finanziari Duff & Phelps su dati Istat e Banca d’Italia 2017).
I cambiamenti più evidentemente impattanti saranno quelli tariffari. Gli scambi a tariffa zero tra l’UE e il Regno Unito si interromperebbero nello spazio di una notte: diventando il Regno Unito un paese extra-UE, il commercio bilaterale sarebbe soggetto alle tariffe Mfn secondo le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO). Questo comporterebbe per l’Italia dazi elevati, in particolare per alcuni settori chiave: l’alimentare, che rappresenta l’8,7% dell’export totale italiano nel Regno Unito avrebbe un dazio medio del 13%, l’abbigliamento (6,7% dell’export) su cui peserebbe un dazio medio dell’11%, gli autoveicoli, che rappresentano l’11,3% delle esportazioni e avrebbero un dazio medio dell’8,8% (*). Leggermente meglio lo scenario per il principale settore di esportazione, macchinari e apparecchiature, che nel 2017 ha rappresentato il 13,4% dell’export in UK, e avrebbe un dazio medio relativamente basso, pari al 2,1% (*).
Combinando il valore dell’export dei singoli settori (** dati Istat 2017) con i dazi medi applicabili a ciascun settore in base alle tariffe Mfn, i costi esclusivamente tariffari sarebbero vicini a 1,3 miliardi di euro per le aziende italiane che esportano nel Regno Unito, che potrebbero tradursi in una riduzione di pari ammontare per l’export italiano annuo verso il Regno Unito.
Alle implicazioni tariffarie si aggiungerebbero poi una serie di altri elementi che impattano su tutta la supply chain: controlli e procedure doganali che oggi non sono richieste, necessità di autorizzazioni e certificazioni per l’utilizzo nel Regno Unito di prodotti provenienti da uno stato dell’UE e viceversa, modifiche alle quote di importazione e alle procedure IVA, diritti di proprietà intellettuale, norme di compliance, norme sull’occupazione, ecc. Sono solo alcune delle molteplici barriere non tariffarie (Non Tariff Barriers, NTB) che, da un giorno all’altro, si andrebbero ad aggiungere ai dazi in caso di uno scenario di non accordo.
“Questi cambiamenti possono rappresentare ostacoli impegnativi e onerosi per molte aziende” dichiara Alessandro De Felice, presidente ANRA – Associazione Nazionale dei Risk Manager, al momento ci sono poche certezze e moltissime incognite, ma è proprio per questo che le imprese coinvolte non possono più posticipare un serio lavoro di risk assessment sulla Brexit, analizzando le esposizioni a breve e lungo termine in funzione del modello di business. Ad esempio, le aziende che esportano nel Regno Unito dovrebbero valutare la possibilità di mitigare il rischio di forti ritardi negli approvvigionamenti del mercato britannico a causa delle operazioni doganali, che si prevedono particolarmente difficili nei primi mesi successivi a un’eventuale ‘hard Brexit’. Già oggi si segnala un sovraccarico degli operatori logistici da e per il Regno Unito”.
“Altro esempio potrebbe essere quello della possibilità del pagamento di un dividendo da parte di una società controllata in Gran Bretagna a una controllante con sede nell’Unione Europea” continua De Felice. “I Risk Manager possono elaborare una Business Impact Analysis che prenda in considerazione le più ampie implicazioni della Brexit: impatti su risorse umane, vendite, compliance, corporate governance, aspetti legali e tecnologici, per comprendere come i diversi esiti dei negoziati possono impattare sulla propria organizzazione e stabilire le strategie di mitigazione più idonee”.
Secondo uno studio del German Economic Institute di Colonia, considerando anche le barriere non tariffarie, in caso di ‘hard Brexit’ l’export del nostro paese verso il Regno Unito nel medio termine potrebbe ridursi, nello scenario peggiore, di un ammontare compreso tra 7,5 e 11 miliardi di euro l’anno, tenuto conto delle stime dell’elasticità della domanda nei diversi settori dell’export italiano verso il Regno Unito.
Il Withdrawal Agreement bocciato dal Parlamento britannico avrebbe mitigato molte di queste barriere non tariffarie ed evitato i dazi durante il periodo di transizione corrispondente alla negoziazione delle future relazioni economiche. Resta poco tempo a disposizione prima del 29 marzo: mentre possono ancora sperare per il meglio, le aziende italiane e degli altri Paesi UE non possono permettersi di non essere pronte al peggio.